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Thursday, July 31, 2014

Montagne di una vitaMontagne di una vita by Walter Bonatti
My rating: 4 of 5 stars

La montagna, fin dall’inizio, e’ stato l’ambiente piu’ congeniale alla mia formazione. Mi ha consentito di soddisfare il bisogno innato che ha ogni uomo di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Cosi’, impresa dopo impresa, lassu’ mi sono sentito sempre piu’ vivo, libero, vero: dunque realizzato. Nella mia vita di scalatore ho sempre obbedito alle emozioni, all’impulso creativo e contemplativo. Ma fu soprattutto praticando l’alpinismo solitario che ho potuto entrare in sintonia con la Grande Natura, e ancor piu’ a fondo ho potuto intuire i miei perche’ e i miei limiti. (7)

A esclusione della domenica, che regolarmente trascorrevo in montagna sia col bello sia col brutto tempo, tutti gli altri giorni furono per me ugualmente insignificanti, fatti delle stesse cose ripetute nel medesimo modo, e nell’immutabile ambiente. Quanto banale e triste e’ vivere cosi’. E pensare che la maggior parte degli uomini d’oggi vi e’ quasi costretta. Ma, cosa ancora peggiore, chi lo sceglie poi se ne mostra vittima. (51)

Sentivo di amare la montagna per i suoi paesaggi solenni, per le lotte ingaggiate con i picchi, per le emozioni e i ricordi che ne derivavano; ma forse l’amavo ancora di piu’ per quel senso di liberta’ e di gioia di vivere che solo lassu’ sui monti riuscivo a trovare. (67)

In quell’allucinante ritorno vi fu un momento magico, al tramonto, che riusci’ a distrarci dall’incubo della fame.
La turbolenta catena antistante, verso cui marciavamo, arrosso’; e da quel momento un caleidoscopio di toni caldi, dal rosso all’indaco, muto’ progressivamente su un arco compreso tra il Cordon Marconi e il Cordon Adela. Al centro del quadro invece, di fianco alla mole indorata del Fitz Roy, il grande disco purpureo della luna continuo’ a navigare alto nel cielo via via piu’ violetto. Infine, spentosi il crepuscolo, tutto, anche dentro di noi, ritorno’ grigio e terribilmente irragiungibile. (166-7)

Non avrei mai intrapreso la scalata del Pilastro Rosso sapendo che mi avrebbe riservato tanti problemi. Ma neppure l’avrei tentata se il Pilastro non mi fosse apparso tanto attraente e misterioso. Parra’ strano, ma e’ su questo pensiero che si regge quasi sempre la logica dell’avventura alpinistica. (186)

Mentre caliamo silenziosi lungo il piccolo sentiero imbiancato di neve, penso alla montagna com’era nel giorno della nostra partenza, inondata di sole, di colori, di vita. Com’e’ tutto diverso ora, e quanto sbiadite appaiono anche le nostre speranze di appena tre giorni fa. Eppure gia’ pensiamo di ritentare il Pilastro Rosso. (197)

La verita’ comunque, piaccia o no, e’ che lassu’ sul Pilone dove tutti e sette fummo uomini e fratelli, e dove una sorte accanita ci aveva isolati dal mondo in una trappola mortale, ma anche dove nessun altro seppe portarci soccorso se non all’epilogo del dramma, io ero semplicemente sopravvissuto. Perche’, forse piu’ degli altri, non avevo voluto ne’ potuto lasciarmi morire. (239)

D’inverno la parete nord delle Jorasses ha la prerogativa di non lasciare mai intravedere all’orizzonte un minimo segno di vita. Quassu’ non giunge altro suono che quello della bufera, altro movimento se non quello delle tempeste e delle valanghe. (267)

Ma ecco che il pinnacolo su cui avanziamo perde verticalita’, si restringe, si corica, diventa vetta.
Sopra di noi non c’e’ piu’ niente. Cosi’, quasi inaspettatamente, ci accorgiamo di essere arrivati. (293)

Arrivare sulla punta di una bella montagna, tanto piu’ se ancora intoccata, e’ sempre un fatto emozionante. Tuttavia si finisce per banalizzarlo con una serie di atteggiamenti cui e’ difficile sfuggire. Il primo e’ quello di scattare le rituali fotografie-ricordo con tutte le varianti: a te, poi a me, a voi, a tutti noi insieme eccetera. Nel frattempo, soltanto con distrazione ci si cura di svolgere lo sguardo attorno, e si fa quasi unicamente se indotti da qualche contingenza: scongiurare un pericolo, prevenirne un altro, commentare uno stato d’animo, quasi sempre un timore di qualcosa che si sta preparando. Per sentire veramente la vetta raggiunta e poterne vivere tutta l’emozione, bisogna esaurire i luoghi comuni e sfuggire a ogni distrazione. E’ molto piu’ facile in solitudine. (353)

Ora dovro’ scendere a valle, verso la cosiddetta normalita’, vale a dire nella realta’ della vita in cui ci si consuma a rincorrersi, senza capirci niente. Credo proprio, lo penso anche in questo momento, che per svelare a noi stessi l’assurdita’ del vivere quotidiano, non esistano punti d’osservazione migliori di questi luoghi, che forse rimarranno incontaminati. Da quassu’ il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso. E pensare che lo si reputa vivo soltanto perche’ e’ caotico e rumoroso. (357)

I migliori:
Pilastro sud-ovest del Dru (1955)
Natale sul Monte Bianco (1956)


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Friday, July 25, 2014

Paradiso e infernoParadiso e inferno by Jón Kalman Stefánsson
My rating: 4 of 5 stars

Paradiso e inferno e’ una storia di mare, ambientata in un tempo abbastanza remoto, nel quale gli uomini sono ancora quello che per millenni sono sempre stati. Le loro usanze, i loro utensili, le loro parole non sono ancora entrati nel gorgo distruttivo della modernita’, che rende tutto deperibile e sostituibile. (dalla Postfazione di Emanuele Trevi, pp. 236-7)

Eppure un paio di cose sulla vita le sappiamo, e anche sulla morte, e possiamo dirle: abbiamo fatto tutta questa strada per incantarti e per smuovere il destino. (p. 11)

Il mare e’ blu, freddo e mai calmo, un mostro gigantesco che inspira, quasi sempre ci sostiene, ma qualche volta no e cosi’ noi affoghiamo; la storia dell’uomo non e’ poi tanto complicata. (p. 17)

Sigurdur vende medicinali e libri nello stesso negozio, i libri sono talmente impregnati dell’odore di farmaci che sicuramente stiamo bene o guariamo al solo annusarli, e poi dicono che non e’ sano leggere libri. (p. 24)

Or scende la sera
a deporre il manto
greve d’ombre
su ciascuna cosa,
la scorta il silenzio
e gia’ s’acquatta
la bestia in terra
l’uccello nel nido
al riposo notturno. (p. 41)

Ci sono parole che hanno il potere di cambiare il mondo, capaci di consolarci e di asciugare le nostre lacrime. Parole che sono palle di fucile, come altre sono note di violino. Ci sono parole che possono sciogliere il ghiaccio che ci stringe il cuore, e poi si possono anche inviare in aiuto come squadre di soccorso quando i giorni sono avversi e noi forse non siamo ne’ vivi ne’ morti. Ma le parole da sole non bastano e finiamo a perderci nelle lande desolate della vita se non abbiamo nient’altro che una penna cui aggrapparci. Or scende la sera a deporre il manto greve d’ombre su ciascuna cosa. (p. 66-7)

… e una giubba decente e’ mille volte meglio e piu’ importante di tutte le poesie del mondo. (p. 72)

Qualche volta percepiamo un flebile rumore nella quiete notturna, semplici suoni frammentati che sembrano venire da molto lontano. E’ Dio, esclamiamo allora felici, e’ il suono che si sente quando Dio viene a prendere chi ha atteso abbastanza a lungo e non ha mai perso la speranza. Questo diciamo e siamo ottimisti, non ancora del tutto prostrati. Ma forse non e’ Dio, forse e’ solo qualcuno sottoterra che si e’ portato un carillon e lo fa girare quando ne ha voglia. … L’essere umano e’ comunque uno strano meccanismo, da vivo come da morto. Quando deve affrontare momenti di grande difficolta’, quando la sua esistenza va in pezzi, convoca automaticamente la memoria, va a frugare nei ricordi e si mette a rivedere la sua vita come un animaletto che si rifugia nella sua tana. (p. 107)

Ma la realta’ non ti permette mai di allontanarti troppo, non le sfuggi’ per un attimo, ha in suo potere i vivi come i morti ed e’ quindi una questione di salute mentale, di inferno o paradiso, rendere la realta’ un posto migliore. (p. 144)

Fara’ mai davvero giorno, ai piedi di una tale montagna? Il ragazzo indietreggia involontariamente dalla finestra, la chiude, la stanza si e’ raffreddata in fretta, piu’ che altro avrebbe voglia di infilarsi di nuovo a letto, coprirsi la testa con la trapunta per il resto della vita, perche’ che cosa gli riserva il futuro a parte respirare, mangiare, andare regolarmente in bagno, leggere libri, rispondere a chi gli rivolge la parola? Per cosa si vive? Prova a pronunciare la frase a voce alta, come se lo stesse chiedendo a Dio o magari a quella bella poltrona, ma visto che ne’ Dio ne’ la poltrona sembrano intenzionati a rispondergli, si mette a pensare ai libri di Kolbeinn. (p. 148)

… a volte bisogna che un mondo vada distrutto, perche’ ne possa nascere un altro. (p. 190)

Sono stati smarriti per le strade di questo paese il senso della vita, il ristoro del sonno, la felicita’ di coppia, il mio sorriso e ogni mio slancio. Chi li trovasse e’ pregato di riconsegnarli alla tipografia, lauta ricompensa. (p. 192)

L’uomo e’ una creatura strana. Lotta contro le forze della natura, trionfa su difficolta’ apparentemente insormontabili, e’ il signore della terra, eppure ha cosi’ poco comando sui propri pensieri come sui baratri che coprono, che cosa alberga in quegli abissi, come si forma, da dove viene, ubbidisce a delle leggi oppure l’uomo attraversa la propria esistenza con un letale caos dentro di se’? (p. 199-200)

… forse l’inferno e’ una biblioteca e tu un cieco (p. 210)
Borges

Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla. Le parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilita’. (p. 215)

Che cos’e’ la vita? Forse la risposta e’ implicita nella domanda, nello stupore che cela in se’. La luce vitale si affievolisce per trasformarsi in tenebra quando smettiamo di stupirci, smettiamo di interrogarci e quando prendiamo la vita come una qualsiasi faccenda quotidiana? (p. 225)





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Saturday, July 19, 2014

GourmetGourmet by Masayuki Kusumi
My rating: 2 of 5 stars

Dopotutto, io sono un giapponese che non beve sake'!
Chomp
Chomp
Gnam
Gnam
(182)

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