Montagne di una vita by Walter Bonatti
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La montagna, fin dall’inizio, e’ stato l’ambiente piu’ congeniale alla mia formazione. Mi ha consentito di soddisfare il bisogno innato che ha ogni uomo di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Cosi’, impresa dopo impresa, lassu’ mi sono sentito sempre piu’ vivo, libero, vero: dunque realizzato. Nella mia vita di scalatore ho sempre obbedito alle emozioni, all’impulso creativo e contemplativo. Ma fu soprattutto praticando l’alpinismo solitario che ho potuto entrare in sintonia con la Grande Natura, e ancor piu’ a fondo ho potuto intuire i miei perche’ e i miei limiti. (7)
A esclusione della domenica, che regolarmente trascorrevo in montagna sia col bello sia col brutto tempo, tutti gli altri giorni furono per me ugualmente insignificanti, fatti delle stesse cose ripetute nel medesimo modo, e nell’immutabile ambiente. Quanto banale e triste e’ vivere cosi’. E pensare che la maggior parte degli uomini d’oggi vi e’ quasi costretta. Ma, cosa ancora peggiore, chi lo sceglie poi se ne mostra vittima. (51)
Sentivo di amare la montagna per i suoi paesaggi solenni, per le lotte ingaggiate con i picchi, per le emozioni e i ricordi che ne derivavano; ma forse l’amavo ancora di piu’ per quel senso di liberta’ e di gioia di vivere che solo lassu’ sui monti riuscivo a trovare. (67)
In quell’allucinante ritorno vi fu un momento magico, al tramonto, che riusci’ a distrarci dall’incubo della fame.
La turbolenta catena antistante, verso cui marciavamo, arrosso’; e da quel momento un caleidoscopio di toni caldi, dal rosso all’indaco, muto’ progressivamente su un arco compreso tra il Cordon Marconi e il Cordon Adela. Al centro del quadro invece, di fianco alla mole indorata del Fitz Roy, il grande disco purpureo della luna continuo’ a navigare alto nel cielo via via piu’ violetto. Infine, spentosi il crepuscolo, tutto, anche dentro di noi, ritorno’ grigio e terribilmente irragiungibile. (166-7)
Non avrei mai intrapreso la scalata del Pilastro Rosso sapendo che mi avrebbe riservato tanti problemi. Ma neppure l’avrei tentata se il Pilastro non mi fosse apparso tanto attraente e misterioso. Parra’ strano, ma e’ su questo pensiero che si regge quasi sempre la logica dell’avventura alpinistica. (186)
Mentre caliamo silenziosi lungo il piccolo sentiero imbiancato di neve, penso alla montagna com’era nel giorno della nostra partenza, inondata di sole, di colori, di vita. Com’e’ tutto diverso ora, e quanto sbiadite appaiono anche le nostre speranze di appena tre giorni fa. Eppure gia’ pensiamo di ritentare il Pilastro Rosso. (197)
La verita’ comunque, piaccia o no, e’ che lassu’ sul Pilone dove tutti e sette fummo uomini e fratelli, e dove una sorte accanita ci aveva isolati dal mondo in una trappola mortale, ma anche dove nessun altro seppe portarci soccorso se non all’epilogo del dramma, io ero semplicemente sopravvissuto. Perche’, forse piu’ degli altri, non avevo voluto ne’ potuto lasciarmi morire. (239)
D’inverno la parete nord delle Jorasses ha la prerogativa di non lasciare mai intravedere all’orizzonte un minimo segno di vita. Quassu’ non giunge altro suono che quello della bufera, altro movimento se non quello delle tempeste e delle valanghe. (267)
Ma ecco che il pinnacolo su cui avanziamo perde verticalita’, si restringe, si corica, diventa vetta.
Sopra di noi non c’e’ piu’ niente. Cosi’, quasi inaspettatamente, ci accorgiamo di essere arrivati. (293)
Arrivare sulla punta di una bella montagna, tanto piu’ se ancora intoccata, e’ sempre un fatto emozionante. Tuttavia si finisce per banalizzarlo con una serie di atteggiamenti cui e’ difficile sfuggire. Il primo e’ quello di scattare le rituali fotografie-ricordo con tutte le varianti: a te, poi a me, a voi, a tutti noi insieme eccetera. Nel frattempo, soltanto con distrazione ci si cura di svolgere lo sguardo attorno, e si fa quasi unicamente se indotti da qualche contingenza: scongiurare un pericolo, prevenirne un altro, commentare uno stato d’animo, quasi sempre un timore di qualcosa che si sta preparando. Per sentire veramente la vetta raggiunta e poterne vivere tutta l’emozione, bisogna esaurire i luoghi comuni e sfuggire a ogni distrazione. E’ molto piu’ facile in solitudine. (353)
Ora dovro’ scendere a valle, verso la cosiddetta normalita’, vale a dire nella realta’ della vita in cui ci si consuma a rincorrersi, senza capirci niente. Credo proprio, lo penso anche in questo momento, che per svelare a noi stessi l’assurdita’ del vivere quotidiano, non esistano punti d’osservazione migliori di questi luoghi, che forse rimarranno incontaminati. Da quassu’ il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso. E pensare che lo si reputa vivo soltanto perche’ e’ caotico e rumoroso. (357)
I migliori:
Pilastro sud-ovest del Dru (1955)
Natale sul Monte Bianco (1956)
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