Romanzi: Una pagina d'amore. Il fallo dell'abate Mouret. Il piacere della vita. by Émile Zola
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UNA PAGINA D’AMORE (****)
Come mentivano quei romanzi! Aveva ben ragione di non leggerne mai. Erano favole buone per le teste vuote che non hanno punto il sentimento esatto della vita. E pur tuttavia, ella rimaneva sedotta, sognava invincibilmente il cavaliere Ivanhoe… (46)
Ma non si rammentavano piu’ dove. Intorno a loro era un vero deserto; non il piu’ piccolo rumore, non una voce umana: era l’impressione di un mare nero, ove soffia una tempesta. Erano lontani dal mondo, a mille miglia dalla terra. E quell’oblio dei vincoli che li attaccavano agli esseri della terra ed alle cose, era cosi’ assoluto, che sembrava loro di esser nati in quel luogo, nell’istante stesso, e di dover morire fra poco, quando si sarebbero presi in braccio l’uno dell’altra. (182)
… in faccia a Parigi, e per sempre. (232)
IL FALLO DELL’ABATE MOURET (*****)
Niente trascende l’umanita’, tutto nasce dall’ambiente, dal “terreno”, cosi’ per le piante come per l’uomo. (prefazione di Ottavio Cecchi, xiv)
Al sole meridiano, la casa, con le persiane chiuse, pareva addormentata in mezzo al ronzio dei mosconi, che salivano lungo l’edera fino al tetto. Una pace beata inondava quella rovina assolata. (271)
Si’, io (Mouret) nego la vita, io dico che la morte della specie e’ preferibile all’abominazione continua che ci vuole per propagarla. La colpa insozza tutto. E’ un puzzo universale che sciupa l’amore, avvelena la camera degli sposi, la culla dei neonati,e perfino i fiori che si schiudono al sole e gli alberi che lasciano scoppiare le loro gemme. La terra nuota in questa impurita’, le cui gocce piu’ piccole si tramutano in vergognose vegetazioni. (331)
Altre volte, credendolo addormentato, Albine spariva per delle ore; e quando tornava lo trovava con gli occhi lustri per la curiosita’, divorato dall’impazienza. Le gridava:
“Da dove vieni?”
La prendeva per le braccia, le annusava le sottane, la camicetta, le guance.
“Tu sai odore di mille cose buone. Dimmi? Hai camminato tra l’erba.”
Lei rideva e gli mostrava gli stivalini fradici di brina.
“Tu vieni dal giardino! tu vieni dal giardino” ripeteva incantato. “Lo sapevo. Quando sei entrata, parevi un gran fiore… Mi porti tutto il giardino nelle tue vesti.” (343)
Certamente l’albero tanto cercato, la cui ombra dava la felicita’ perfetta, doveva trovarsi li’. Ne sentivano la vicinanza dall’incanto che scorreva dentro di loro nella penombra delle volte slanciate. Gli alberi apparivan loro come creature buonissime, piene di forza, piene di silenzio, piene d’una felice immobilita’. Li guardavano a uno a uno, li amavano tutti, aspettavano dalla sovrana tranquillita’ qualche confessione che li facesse diventar grandi com’essi, nella gioia di una vita possente. Gli aceri, i frassini, i carpini, i cornioli, erano un popolo di colossi, una moltitudine di una dolcezza superba, dei buoni uomini eroici che vivevano della pace… (393)
Era il giardino che aveva voluto il fallo. Per delle settimane s’era prestato al lento sviluppo dei loro affetti. (420)
(Mouret) “Ho pensato spesso ai santi di pietra che si incensano da secoli nel fondo delle loro nicchie” disse lui sottovoce. “A lungo andare debbono essere tutti impregnati d’incenso, ed io, io sono come uno di quei santi. Ho dell’incenso sin nell’ultima piega dei miei organi. E’ questa imbalsamazione, che forma la mia serenita’, la morte tranquilla della mia carne, la pace che gusto a non vivere… Ah! che nulla mai mi distolga dalla mia immobilita’! Rimarro’ freddo, rigido, con l’eterno sorriso delle mie labbra di granito, incapace di discendere fra gli uomini. Questo e’ l’unico mio desiderio.” (510)
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